Quando le psicoterapie falliscono. Che cosa è e perché bisogna conoscerla e trattarla.
La dissociazione strutturale è un meccanismo innato e potente che fornisce all’essere vivente la capacità di adattarsi alle difficoltà legate alla minaccia alla propria sopravvivenza, mettendo questa al primo posto davanti ad altri bisogni primari come la fame, la sete, il sonno, il riposo e il gioco (Van Der Hart, Nijenhuis, Steele, 2006; Schore, 2001);( Elvira Larosa 2021)
La capacità innata di avvertire la gravità di una minaccia alla propria sopravvivenza, si accompagna alla tendenza istintiva di mobilitare tutte le risposte difensive più sicure ed efficaci per quella minaccia percepita.
Quando i meccanismi legati alla sopravvivenza falliscono e aumenta il pericolo, si attivano automaticamente altri meccanismi come il congelamento (freesing) o la sottomissione e difronte a una minaccia ineluttabile per la vita, il cervello e il corpo entrano istintivamente in uno stato di “finta morte” (Porges, 2005), con interruzione delle funzioni vitali, fino a perdere coscienza e/o accasciarsi, oppure ad entrare in uno stato di sonno apparente, come spesso viene descritto dagli esseri umani.
Alla nascita, il cucciolo dei mammiferi, senza qualcuno che corrisponda ai bisogni di sicurezza, fame , sete e sonno, legati alla sopravvivenza, muore.
Gli esseri umani hanno la “capacità di distanziarsi emotivamente dagli eventi traumatici e dalla propria “memoria profonda” per evitare di venire sopraffatti da vissuti dolorosi e intollerabili in atto, o dagli stessi ricordi che tali eventi comportano, per poter continuare ad andare avanti.
Per andare avanti è necessario creare una separazione, appunto quella che scientificamente nel campo della psicotraumatologia viene definita “dissociazione strutturale”. Con questa si crea una separazione mentale ed emotiva tra quello che ci sta succedendo o che ci è appena successo o che potrebbe succedere ancora. Che ci si trovi in un ambiente maltrattante, abusante e trascurante durante l’infanzia o su un campo di battaglia, o si sia vittime di violenze e atti di crudeltà o torture, l’essere umano attraverso la dissociazione strutturale riesce a mantenere un distacco dagli eventi traumatizzanti e vissuti come terrifici, come se la vita che sta vivendo non fosse la propria.
Anche se in quel contesto non si potrà evitare di vivere e subire quanto sta accadendo senza poter fare nulla, l’essere umano continuerà a subire tenacemente per poter sopravvivere, e questa forza la trova nella dissociazione. Si crea così una parte nuova, diversa da noi stessi, che terrà le memorie di quei sentimenti soverchianti davanti agli eventi (anche quotidiani) intollerabili. La vergogna, il dolore, l’abuso, lo stupro, le violenze, la trascuratezza verranno ignorate perché non sta accadendo a noi ma a “quell’altra parte di noi ” che si è creata dissociandosi; la rabbia ribollente, gli impulsi violenti certamente non ci minacciano più e non avremo bisogno di reagire al pericolo perché ciò che sta accadendo sta accadendo “all’altra parte”alla parte che custodirà i vissuti e le memorie traumatiche, e che verrà ignorata e dimenticata dalla persona, perché si è formata istintivamente, non in modo volontario, ragionato e consapevole.
“Io non ho paura”. Disconoscendo questa/o/queste parti, verranno disconosciute le paure vissute (Bromberg, 2011) e si creerà un distacco emotivo e la presenza dalla realtà.
La “DISSOCIAZIONE TRAUMATICA” è un meccanismo che tutti gli individui dispongono per sopravvivere all’orrore e per impedire che il proprio cuore e la propria anima diventino amari quanto le circostanze che le hanno provocate, potendo così continuare ad avere speranza nel futuro per poter andare avanti.
Durante l’infanzia, questo meccanismo permette di restare vicino ad un genitore o altre figure abusanti, violente, da cui è impossibile fuggire. Questo permetterà al bambino di continuare a vivere e a garantirsi la sopravvivenza, permettendogli anche di continuare a crescere e a svilupparsi a discapito di tutto ciò che gli accade o accade intorno a lui.
Quando una parte del bambino può concentrarsi su attività “normali“ come andare a scuola, fare esperienza di nuove opportunità, imparare a sviluppare un senso di padronanza, praticare uno sport e farsi degli amici, c’è la possibilità che il bambino sviluppi in maniera normale le tendenze motivazionali all’esplorazione e alla socializzazione. Il bambino che va avanti con la vita normale, ignaro o a malapena consapevole di quanto è costretto a vivere ogni giorno e di quello che gli sta succedendo, diventerà un “bambino genitorializzato”: genitore di se stesso e riuscirà ad andare avanti.
Quanto più il trauma o la trascuratezza sarà grave e quanto minore è il grado di sicurezza, tanto maggiore sarà la distanza necessaria da prendere rispetto alla parte dissociata che conserverà le memorie inconsapevolmente della propria vulnerabilità emotiva e fisica. Per chi si trova a vivere situazioni familiari complicate, abusanti e terrificanti e/o sociali come la guerra, o la povertà estrema, anche “disconoscere” i bisogni fisici normali di vicinanza a un genitore amorevole e accudente, o essere consolati, diventa una strategia di adattamento vitale
E quando i bisogni di sicurezza non possono essere soddisfatti, un modo per conseguire questo difficile obiettivo è attribuire il proprio disperato bisogno di sicurezza su quella parte dissociata, tenuta distante, mentre il sentirsi rifiutati va su un’altra per poter andare avanti sopportando e facendo qualsiasi cosa.
Disconoscere le proprie parti spaventate e bisognose così come quelle arrabbiate, ostacola peró l’autoaccettazione e la cura di sé, ma ciò è sempre meno rischioso rispetto alla realtà che si sta vivendo.
Quando l’individuo deve adattarsi a un ambiente che punisce o ignora i bisogni e le emozioni basilari di un bambino, persino l’autocompassione diventa “pericolosa”. Quel bisogno non potrà essere ascoltato nè ricercato in quel presente. Non fa parte di “me“.
Se la parte fragile e bisognosa di accudimento e dolcezze è denigrata dall’ambiente in cui il bambino vive, allora quel bambino potrebbe doversi identificare con le proprie parti arrabbiate e aggressive e dovrà disconoscere le sue parti innocenti e fiduciose che porteranno il peso dell’abuso, così che la colpa del trauma possa essere attribuita a “quelle parti bisognose fragili, abusate e vulnerabili”.
Ma la dissociazione diventa indispensabile anche per mantenere una parvenza di attaccamento a figure ampiamente trascuranti, spaventanti e abusanti, e questo è un istinto sottovalutato ma importante, quando si è troppo piccoli per rendersi indipendenti dalle figure di accudimento. Se il “bravo bambino che piange è sgradito” alle figure di attaccamento, può essere più adattivo adeguarsi sempre più, mostrandosi compiacente, insensibile e autonomo piuttosto che vergognoso e disgustato, per non riattivare nelle figure di accudimento (pericolose e trascuranti ) la minaccia di altre paure e altre violenze.
Disconoscendo il bisogno, il “bambino bisognoso” verrà allontanato e trattenuto dall’altra parte, e qualsiasi “parte minacci l’adattamento del bambino” in un ambiente traumatizzante, deve essere esclusa dalla coscienza.
CURARE LA DISSOCIAZIONE E AVVICINARE LE PARTI ALLONTANATE/SMARRITE
Tutti abbiamo bisogno di “piacerci” e ciò a volte avviene tenendo lontano quelle parti che contengono i ricordi di vissuti ed esperienze di vergogna, di dolore o rifiutate o carichi di vulnerabilità, rabbia e delusione inconsolabili ai nostri occhi. Questo distacco con la parte più autentica e più vera di noi stessi viene espresso dalle persone traumatizzate con frasi come <<non ricordo, non lo so, non so niente di me, so però che non mi piaccio!>>
Le persone che hanno vissuto delle esperienze profondamente traumatiche, dissociate dalla loro memoria e, “portate” dalle parti dissociate, provano una profonda compassione verso coloro che soffrono e cercano di essere figure consolanti, di aiuto e di salvezza. Le persone con una dissociazione, questo ruolo lo svolgono con molta naturalezza, solo che questa capacità non è altrettanto generosa, spontanea e naturale verso se stessi.
Questo ha indotto queste persone, alla convinzione che gli altri meritino molto di più, che siano migliori o superiori a loro ma nello stesso tempo sentono che non possono fidarsi degli altri perché ritenuti pericolosi.
L’ipotesi comunemente accettata è che in qualsiasi relazione, per sentirsi al sicuro, gli esseri umani hanno bisogno di compassione sia verso se stessi che verso gli altri.
Nella maggior parte dei metodi psicoterapeutici è presente la radicata convinzione che la “guarigione” sia il risultato di un processo relazionale: se si è stati feriti in una relazione non sicura, quelle ferite guariranno in un contesto di sicurezza relazionale.
Ma se fosse la qualità dei nostri legami di attaccamento “interiori”, piuttosto che quella dei nostri legami interpersonali, a determinare la nostra capacità di sentirci sicuri e al sicuro?
Se avere accanto a noi un testimone ( il terapeuta) durante il ricordo di eventi dolorosi non ci sta guarendo le ferite di queste esperienze?
Se fosse più importante avere compassione per il bambino sopravvissuto a quegli eventi che dare importanza ai dettagli di ciò che è successo?
Se così fosse, (e sono d’accordo con Janina Fisher autrice di questo passo), allora il trattamento del trauma dovrebbe concentrarsi meno sugli eventi traumatici e dolorosi e più sul coltivare la compassione per le parti dissociate, disconosciute e allontanate (anche se inconsapevolmente da se stessi) a causa delle esperienze difficili vissute.
Quando tutte le nostre parti si sentiranno connesse l’una all’altra e amate dentro di noi, ciascuna di esse potrà sentirsi al sicuro, accolta e meritevole e questo spesso accade per la prima volta nella psicoterapia della “dissociazione strutturale”
Il primo passo è provare curiosità per “questa parte o queste parti dentro di noi” che SONO CHI SIAMO STATI NOI, in quelle fasi intollerabili della nostra vita, e che non conosciamo davvero e anche in terapia cerchiamo di rifiutare?
I casi che fanno riferimento a quest’ultima citazione, nella mia esperienza professionale sono prevalenti rispetto ad altri.
Pazienti provenienti da altri tentativi di cura non risolta e che solo con la terapia della dissociazione Strutturale, nel riconoscere e abbracciare queste parti, hanno potuto rinascere e sorridere ancora:
Miriam scrive:
«…l’esplorazione del proprio passato è sempre cosa impegnativa, a volte sconvolgente.
Siamo entrambi molto fiduciosi!»
Ed in seguito
«… Ora ho ripreso a truccarmi prima di uscire… sento che è una nuova vita, mi è data un’altra possibilità🙏 Un abbraccio.. 🤗»