La storia di N.
N. si rivolge a me nel settembre 2007 per una psicoterapia dopo aver visto l’amico R. (affetto da un disturbo di personalità borderline) affrontare e risolvere difficoltà per lui insormontabili nel corso della psicoterapia con me.
Per questo motivo giunge speranzoso e fiducioso che lo possa prendere in cura, consapevole di dover lavorare con impegno per poter risolvere insieme a me i suoi problemi.
N. , 33enne, è figlio unico, medico figlio di medico. Non si riconosce alcolista tanto meno riconosce di avere comportamenti da abuso di sostanze e soprattutto non si riconosce depresso, anzi rifiuta con rabbia questa entità clinica come se fosse il marchio più disonorevole e infamante nella vita di un uomo.
I problemi lamentati da N nella sua richiesta di colloquio sono i tremori insorti da qualche tempo alle mani che gli impediscono di svolgere la professione , l’insonnia notturna nonostante l’assunzione (abuso) di 13 compresse di Stilnox (sonnifero) per notte e il consumo di circa 10 spinelli ogni sera insieme a quantità imprecisate di alcolici e superalcolici.
Emotivamente instabile, N. è quasi sempre molto arrabbiato e questa rabbia sarà anche il filo conduttore di tutta una grossa parte della sua psicoterapia .
Nella prima fase della terapia lavoriamo molto sulla nostra relazione attraverso continui giochi di ruolo: N. fa il terapeuta ed io faccio il paziente che non sa esprimere le proprie difficoltà, sofferenze ed emozioni perché non ne ha consapevolezza. Per questa saranno necessari quasi 2 anni affinché N acquisisca la capacità di comprendere il valore delle proprie emozioni soprattutto di quelle intermedie e dello stato emotivo di calma. N è bravo nel cogliere gli stati d’animo estremi: troppa rabbia o troppa gioia. Non esistono gli stadi intermedi, i toni medi delle emozioni, del fare, dell’agire, per lui corrispondono a un senso di insopportabile vuoto .
N. è eccessivo nel lavoro, nello sport, nel bere, nell’amicizia e nell’amore. Se conosce una donna si entusiasma e vuole subito fare sul serio, salvo poi cadere in cocenti delusioni perché le cose non sono andate come avrebbe voluto e avrebbe previsto.
Per N. la realtà non è quella condivisa da tutti ma quella che pensa lui e che lui ritiene essere giusta. Sin dall’inizio lavorare con N. per aiutarlo a vedere la sua paura di essere imperfetto e fallibile come tutti noi, è stato non solo difficile ma anche doloroso: per N essere fallibile corrispondeva ad essere un fallito e non una persona che soffre tra mille difficoltà tra le quali molte non dipendenti da lui e dalle sue volontà.
Tra tanti buoni propositi realizzati, seppure incompiutamente, di non incorrere in successive sbornie pericolose, di ridurre progressivamente i farmaci e le prevedibili ricadute dopo alcuni mesi di psicoterapia, N accetta (o meglio si sforza di accettare) con l’aiuto di un collega psichiatra sconosciuto nella città in cui viviamo (direttiva imposta, compresa e accettata dalla sottoscritta), una terapia antidepressiva farmacologia che acceleri i tempi e lo aiuti a lavorare meglio, ma il tentativo fallisce dopo brevissimo tempo.
N. non solo non si adegua alla terapia farmacologica ma continua a vedere le cose a modo suo, ad assumere in misura patologica lo Stilnox, a cadere durante le sbornie, a farsi male, a farsi la pipì addosso, a farsi riaccompagnare a casa da estranei e soprattutto a bere oltre misura, in una quantità tale da non conservare memoria di quanto accaduto tranne che per le ferite che dice di non ricordare come ha fatto a procurarsele.
Infatti se N. beve, lo fa al punto da annullare la memoria, da non poter ricordare nulla perché questa parte infelice e fallita di sé ancora non è in grado di sostenerla da potersene prendere cura.
N. quando si ferisce non cura le parti ferite, smette di guardarsi allo specchio se è ferito al volto, si copre le braccia per non vedersi per non ricordare i segni di cose che vuole dimenticare.
Inoltre è incapace di ricostruire gli eventi e di dare la giusta e completa rilevanza a quanto gli accade.
N. però riesce a gestire le bevute lontano dai giorni lavorativi, delimitandole al venerdì e sabato ed eccezionalmente alla domenica se al lunedì non ha impegni professionali. Questo comportamento ci aiuterà moltissimo a lavorare sulle possibilità di N. a impegnarsi nella realizzazione dei suoi progetti futuri compreso l’affrancamento dalle sostanze da cui dipende.
Prima del suo arrivo in terapia a N. era stata ritirata la patente una prima volta per 6 mesi , la seconda volta nel luglio del 2008 dopo un controllo stradale subìto all’uscita barcollante da un bar davanti al quale sostava una pattuglia di controllo. È stato fermato subito dopo essersi messo cavalcioni sullo scooter che gli è stato sequestrato come prevede la legge mai più restituito perché lui risultato, ovviamente, positivo all’etilometro. Gli è stata ritirata la patente come disposto dal codice della strada per un anno in quanto era già la seconda volta che incorreva in questo reato.
Superfluo aggiungere che N. non ha condiviso queste “punizioni” e alla mia osservazione : “Perché se hai visto un posto di blocco davanti al bar hai preso il motorino lo stesso?” La sua risposta è stata: “Perché non ero ubriaco,erano incompetenti quei 2 poliziotti, poi c’è stata la sfiga.” Risposte e affermazioni immature di persona incapace di valutare in modo sensato e coerente la realtà. Dalla madre apprendo cose dolorosissime della vita di N., che non avrei mai potuto conoscere se la storia fosse rimasta confinata alla relazione tra me e il figlio che e ai ricordi di N., che hanno fatto luce su questi comportamenti autolesionisti del figlio.
Alla sua nascita la madre è nel pieno di uno tzunami affettivo sia coniugale che materno che durerà alcuni anni a causa dell’alcolismo del coniuge.
Nei primi anni di vita la madre e il padre di N. litigavano quotidianamente, il marito rincasava ubriaco e la picchiava. Scenate e scenari di violenza fisica, sofferenze e disperazione della madre di N vissuti sulla pelle di un piccolo ignaro e indifeso da due genitori troppo presi dai loro problemi e che invece avrebbero dovuto proteggerlo. Spesso N a 3 anni veniva lasciato in casa da solo “lo lasciavo solo per alcune ore davanti al televisore, rimaneva ubbidiente senza muoversi, lo trovavo tale e quale come l’avevo lasciato” – dirà la madre tranquilla raccontandomi che non andava poi così lontano!
Dopo i primi anni di vita del figlio, il padre di N. entrerà nell’anonima alcolisti e con grande forza di volontà e d’animo sconfiggerà la sua battaglia e non berrà mai più un sorso di alcool.
N. comunque da questi vissuti nei primi anni di vita formerà, come facciamo tutti noi da piccoli, le sue mappe di conoscenza dell’amore, delle relazioni con gli altri, del valore di sè e di sè con gli altri nel mondo.In virtù delle sue mappe che sono il risultato dei suoi vissuti con i suoi genitori N non costruirà un attaccamento ma avrà una visone frammentata e incoerente non solo di sé ma anche degli altri: disorganizzazione dell’attaccamento, che spiegherà il suo modo di porsi in relazione con gli altri, con le figure affettive il mondo in modo sempre molto contestuale e che spiegherà altresì i suoi comportamenti d’abuso, la depressione e il disturbo di personalità borderline di cui è affetto.
Quando ho cominciato a nutrire certezze che N. ce l’avrebbe fatta? Sicuramente quando la madre mi parlò a un certo punto del figlio come del peggior essere sulla terra (mentre era lì davanti a me per aiutare un figlio meritevole di essere aiutato): un figlio rappresentato in quel momento a se stessa come cattivo perché ciò alleviava la sua sofferenza dettata dai sensi di colpa (anche nella madre scoprivo il quel momento una disorganizzazione dell’ attaccamento che ruotava nella sua lettura del mondo in un triangolo drammatico: è colpa sua, è colpa mia , è colpa degli altri): ho cominciato a credere che il mio rapporto di fiducia e stima reciproca con N. avrebbe aperto un nuovo mondo nella mente e nella vita di questo mio paziente.
Per lunghissimi mesi chiesi inutilmente alla madre di N. di provare a dimostrare fiducia costante al figlio, di pensare cose positive di lui e di dirgli che nonostante la grave situazione era fiera di tutte le cose buone che aveva fatto comunque fino a quel momento: ma lei (figlia di padre alcolista, e con 2 fratelli alcolisti di cui uno morto per le conseguenze dell’alcolismo) era troppo terrorizzata all’idea che il figlio non si salvasse da quella sorta di maledizione e pertanto per lei risultava molto difficile essere ottimista, sforzarsi di fare un sorriso, tantomeno mettersi nei panni di questo figlio infelice cresciuto tra tanti problemi, severità e senza manifestazioni affettive espresse fisicamente. Ogni cosa buona fatta dal figlio era soltanto l’esecuzione di uno dei tanti doveri che N. doveva portare a termine.
Dalle prime battute ho sentito la parte buona di N. con le sue delicatezze, paure, debolezze, e bisogno di aiuto per autoaffermarsi e riconoscersi come persona, intrappolata in una gabbia fatta di rabbia, bisogno inconsapevole di amore e accettazione da parte dei suoi genitori. Rispetto ai suoi bisogni affettivi N. dimostrava un’età mentale di un bambino molto piccolo seppure riuscisse professionalmente e con fatica a gestirsi .Non dobbiamo dimenticare che la motivazione con la quale N. chiede una psicoterapia è dettata dal dovere e dall’esigenza professionale e non dall’amore per se stesso: lui viene in cura perché gli tremano le mani!
N. in fin dei conti era riuscito a laurearsi nonostante l’alcol e le varie sostanze di cui faceva abuso, non aveva mai perso totalmente di vista le cose praticamente buone per la vita, ma nella scelta tra queste cose buone e ferire e punire i suoi genitori prevaleva (seppure inconsapevolmente) la seconda scelta come fanno i bambini dispettosi. Così facendo il padre non smetteva di criticarlo, riprenderlo, rimproverarlo, sminuirgli la psicoterapia fin dal primo giorno: “Cosa vuoi fare, non ne uscirai mai con queste storie…devi andare all’anonima alcolisti..” e così in un circolo vizioso senza fine.
Le osservazioni di N. erano le seguenti: “Come se fossimo uguali, io non sono uguale a lui, non ho le responsabilità di un figlio e un figlio non lo farei mai in queste condizioni”.
Era evidente anche da queste parole che il problema di N. era il grave e pesante conflitto con entrambi i genitori, prevalentemente il padre, ai quali peraltro era molto legato e dai quali ha anelato quel riconoscimento mai avuto, segno tangibile di quell’amore di cui tutti abbiamo bisogno per realizzare lo scopo per cui siamo venuti al mondo: l’amore!
Durante una riunione di consulenza con la madre e lo psichiatra, loro amico di famiglia dai tempi dell’università, la madre, quando io sostenni che N. ce l’avrebbe fatta a venirne fuori con le sue successive scelte, reagì in modo molto concitato dicendo che secondo lei N. non ce l’avrebbe mai fatta, rimarcando il fatto che fino a quel momento N. aveva smesso i suoi vizi ma solo per periodi di 1-2 mesi alla volta…
N. cominciò a preoccuparsi dello stato emotivo della madre, diversamente da come ne aveva sempre parlato dimostrando un’attenzione e un ‘apprensione per lei inimmaginabile per chiunque… da quel momento smise di parlare, come un bambino colpevole , si concentrò su di lei, monitorando gli stati d’animo della madre piuttosto che concentrarsi sulla relazione con tutti noi.
Finita quella riunione fatta a tarda sera, uscirono tutti dal mio studio e la stessa cosa feci anch’io subito dopo e vidi N. andare via da solo in una direzione, le spalle curve e l’andatura stanca e provata mentre la madre andò via accompagnata e sostenuta emotivamente dall’amico psichiatra con la moglie che aveva atteso in sala d’aspetto diretti nella direzione opposta.
Già da quella sera N. ricominciò a bere in modo disperato e cattivo, più di prima, come mai prima di allora, fece amicizia con persone che gli vendettero della polverina (?) trovata accidentalmente dai suoi genitori (non sappiamo cosa fosse) , fece un incidente distruggendo l’auto della madre qualche giorno dopo, dopo aver guidato pur senza patente.
A maggio di quest’anno N. dopo vari alti e bassi cominciò ad avere violenti mal di stomaco, si sottopose a controllo clinici e di laboratorio, cominciò a vomitare e in una seduta mi disse “Elvira mi faccio schifo, sono io un vomito, io vomito me stesso, sono un tossico schifoso e uno schifoso alcolista e un depresso, cerchiamo una clinica dove disintossicarmi, non ce la faccio più non voglio più nascondermi, smetterò anche di lavorare , a f… c.. . tutto, voglio curarmi… troviamo un centro dove possa superare la crisi dello Stilnox e del resto”.
N. entrerà in reparto di riabilitazione consapevole che quella è la sua scelta. E’ una svolta cercata dolorosamente ma con costanza e dopo 3 settimane alla domanda fatta dallo psichiatra: “Quando pensi di uscire da qui ?” Lui risponderà: “Quando voi giudicherete che sia arrivato il momento”. N. uscirà 4 settimane dopo dalla clinica in cui era entrato con la prescrizione di una terapia farmacologica che assume regolarmente tuttora.
Ogni passo da questo momento è svolto con consapevolezza e capacità riflessiva se non immediatamente a caldo, almeno in un lasso di tempo pressoché normale. N. non ha più toccato un goccio di alcool né fumato spinelli e non assume più Stilnox . Attualmente frequenta con calma una ragazza che gli piace molto e porta avanti il suo percorso psicoterapeutico con me. Quando N. oggi ha acquisito la padronanza della sua vita ed é rinato.
La costante di questa psicoterapia è stata la stima e la fiducia nelle possibilità e capacità di N. di impegnarsi nel lavoro su se stesso, impegno altrettanto faticoso quanto quello che aveva messo in atto in diversi altri ambiti: studi universitari, sport, astensione -per i bisogni professionali- dall’alcol durante la settimana- parti sane su cui ho potuto far leva per lavorare sulle competenze e strumenti personali che possedeva da usare per un miglior monitoraggio della sua volontà e per una sana modalità di interazione con gli altri.